os argonautas

Marco Maria Zanin

La consistenza della memoria è messa a dura prova di fronte alle dinamiche della metropoli post-moderna. I supporti materiali su cui essa si deposita, siano essi monumenti, antichi edifici, oggetti o album di famiglia, sono puntualmente ingoiati o demoliti dagli effetti di una forza cieca che spinge verso il nuovo, verso il massimo profitto, che trasforma rapidamente il tessuto sociale e urbano della città e lascia i suoi abitanti senza radici.
San Paolo del Brasile è la più grande città ‘italiana’ dopo Roma. Qui, a partire dal 1865 si riversò gran parte dei flussi migratori che dall’Italia, soprattutto dalle campagne del Veneto, si dirigevano oltreoceano.
Oggi è una metropoli di venti milioni di abitanti, capitale culturale di una delle più dinamiche economie emergenti, un complesso, gigantesco e caotico organismo di cemento in cui convivono e cozzano una moltitudine di storie, etnie, religioni, classi sociali, in una corsa continua verso il futuro.
Os Argonautas è il desiderio di immergersi in questo tumulto per ricomporre i resti di una memoria che ha legato le storie di due Paesi contribuendo allo sviluppo economico e culturale di entrambi, una forma peculiare di una pratica eterna, quella del viaggio verso un destino migliore.
Tra gli argonauti approdati in Brasile ci sono stati grandi imprenditori, artisti e altre figure rilevanti, ma i protagonisti di questa indagine sono quegli ‘ultimi’, contadini e artigiani, che hanno lasciato le loro terre come unica alternativa alla miseria. Essi sono spesso senza volto perché le loro identità si perdono nel tempo, e senza nome perché non esiste una storia che si sia preoccupata di tramandare le loro gesta.
Le loro presenze si confondono nel peso e nel rumore del tempo, reso ancora più graffiante dai ritmi della metropoli. Rimangono pochi segni, qualche ricordo attorcigliato a un sogno, forme che prendono altre forme. Materia riemersa, ora disponibile per essere lavorata.

Il Demonumento di Marco Maria Zanin | Alessandra Mauro

I documenti sono gli indizi con cui noi ricostruiamo il filo della memoria, fragili e tenui tracce di un passato da ricostruire. Tasselli di una composizione che spetta a noi, testimoni del presente, riuscire a connettere nel modo più appropriato, con la freddezza che la giusta distanza permette (quella degli storici. Ma in fondo, anche quella dei fotografi). Solo così, i documenti possono diventare testimonianza di quel che abbiamo vissuto. Memoria densa di significato, riferimento culturale, esempio. In una parola, monumento.
Marco Maria Zanin tenta un percorso laborioso e impervio, affascinante e disperato, attraverso questi stessi temi. E lo compie con la consapevole meraviglia di chi è pronto a farsi sorprendere da quel che può trovare. Il suo è un viaggio nel tempo e nello spazio, seguendo le tracce di molte esistenze vissute e soffocate, sparite eppure ancora in qualche modo presenti nel reticolo di cemento che come un grande monumento all’oblio, costituisce il tessuto urbanisticamente impazzito di una citta come São Paulo.
Lì, tra questi edifici che impediscono all’orizzonte di distendersi, che si popolano di finestre come unici varchi nel privato più intimo, che si riempiono di graffiti come grandiosi disegni, lettere di un macroalfabeto che urla al mondo la sua presenza ma che sarà presto coperto da altre lettere e altri urli, lì bisogna cercare quei fragili resti delle esistenze vissute e provare a dare un nome e una storia a chi dalla storia è stato cancellato.
Il lavoro di Marco Maria Zanin è un intervento artistico, certamente: cercare di trovare, se ancora esistono, i resti di una memoria personale e collettiva così fondante, per il Brasile ma anche per il nostro paese, come quello dell’emigrazione dei primi del Novecento nella grande metropoli del Sudamerica. Eppure, non è solo questo. È anche l’atto consapevole di uno storico, che quei resti prova a riconnettere uno con l’altro, a restituire il filo di identità e percorsi con l’attitudine ottimistica e l’animo chiaro di chi pensa che si tratti di un intervento ancor prima che possibile, necessario. Ma soprattutto, quello di Marco Maria Zanin è anche il gesto tipico del fotografo: cercare un’immagine, recuperarla tra tanti possibili anfratti nascosti, rivelarla, cioè portarla alla luce.
Proprio il gesto del fotografo, infatti, costruisce il cuore e la spiegazione dell’intera installazione. Al centro dell’intervento, così come al centro del suo stesso interrogarsi intorno al senso dell’essere fotografo oggi, Marco pone il retro di una grande stampa fotografica. Quella superficie apparentemente anonima, glabra, pallida, solcata da leggere cicatrici del tempo, a ben guardare può dire tanto se interrogata a dovere.
È lì infatti che si annida il senso di ogni fotografia. Non tanto nell’immagine ma nel suo residuo documentario, nei segni del tempo che quel rettangolo di carta ha vissuto registrandone ogni passaggio, ogni peripezia esistenziale, proprio come avviene per le rughe sui visi degli uomini. Perché ogni fotografia è in fondo sempre soprattutto documento e riuscire quindi a interrogare quei segni potrebbe voler dire invertire l’entropia della storia, ritrovare un valore nella perdita di senso. Costruire un monumento dove invece c’è solo il suo contrario, il de-monumento.
L’autore sa bene, però, come questo processo non è che un orizzonte volontaristico più che una verità tangibile. Ma a lui non resta altro, comunque, che andare avanti. Provare e riprovare, con la consapevole determinazione che, come dice Le Goff, “non esiste il documento-verità. Ogni documento è menzogna. Sta allo storico [ma potremmo dire, all’artista o al fotografo] il non fare l’ingenuo”.